Cosa ti ha spinto ad intraprendere la carriera così complessa del regista, soprattutto in Italia?

Ho un grosso debito nei confronti del Cinema. Mi ha aiutato a combattere la depressione ed evadere dalle ferite famigliari. Intervisto per apprendere l’esperienza altrui e filmo per esprimere la mia anima. Scrivo spesso soggetti e racconti brevi tratti da esperienze vissute. Inoltre sono attaccato a un’idea di cinema italiano meno romano possibile e più diversificato sul territorio, motivo per cui mi piacerebbe diventare con il tempo un regista di riferimento in Veneto. Ecco perché dopo il diploma in Sceneggiatura alla Scuola di Cinema Mazzacurati sono rimasto sul territorio. Credo che nella provincia si annidi l’ultimo barlume di umanità e di realtà. Questo non significa raccontare storie in dialetto regionale, ma raccontare microcosmi con tematiche universali che possano spaziare in diversi generi ed esportabili all’estero. Non è semplice, ma dopo dieci anni di studi e sacrifici, il cinema ha cominciato a ripagare la mia perseveranza, in particolare nel tempo tolto agli affetti.

Ho notato un’attenzione peculiare ai dettagli, alle luci e al suono. Hai qualche regista o direttore della fotografia da cui prendi ispirazione?

La domanda che ogni cinefilo teme. Sono arrivato alla conclusione di amare le intere filmografie di cinque registi: Marco Ferreri, Roman Polanski, Gaspar Noè, Ulrich Seidl e Sergio Leone. Ferreri è stato un precursore dei generi, un ibrido esiliato dal cinema italiano ma con delle sceneggiature e un lavoro sugli attori iperialistico. In Polanski amo la solitudine del suo sguardo e l’angoscia dei suoi frame. I film di Noè e Seidl, ma anche di Tinto Brass e Claudio Caligari, utilizzano una fotografia e una messinscena iperealistica a cui spero di arrivare con il mio primo lungometraggio. Lodevole di menzione sono anche i film di Pupi Avati, con cui condivido la passione per i volti veri.

Quali sono i registi e i film a cui sei più legato?

I film slegati da una visione professionale a cui sono emotivamente legato sono:
Jaws di Steven Spielberg, La Cosa di John Carpenter, Amici miei di Monicelli, Don Camillo e l’onorevole Peppone di Carmine Gallone, Compagni di scuola di Carlo Verdone, Quei bravi ragazzi di Martin Scorsese e Volere Volare di Maurizio Nichetti.

La nostalgia del randagio. La nostalgia di un cane divenuto uomo, perché questa idea?

La nostalgia del randagio è un cortometraggio a cui sono molto legato perché ha segnato un distacco dal periodo amatoriale a quello semi professionale. Ritengo che ogni regista debba avere un periodo amatoriale, in cui sperimenta tecnica, riprese, set, senza grosse pretese, utilizzando amici parenti e chiunque sia disposto ad aiutarlo. Nel 2015 venni selezionato assieme ad altri sei filmmaker al Cici Film Festival, un piccolo festival in provincia di Caserta, dove durante la serata di apertura venne svelato il tema del concorso, la trasformazione. Dovevamo realizzare un cortometraggio site specific utilizzando come cast la popolazione del paese. Uscendo per dei sopralluoghi mi imbattei in una signora che usava il suo stipendio per sfamare una colonia di quaranta gatti e dodici cani, tutti salvati dalla strada e da maltrattamenti. La trovai una storia molto interessante da raccontare. Ho raccolto così le loro storie e le ho trasformate in una ballata sulla trasformazione, la loro vita prima e dopo l’incontro con questa signora.

Giulio Golfieri

#DECALOGO. Quale è stato lo spunto che ti ha spinto ad associare i dieci precetti a queste specifiche immagini?

Terminata l’Università mi sono trasferito a Venezia con l’idea di fondare un collettivo, che inizialmente doveva coinvolgere parte dei mie ex compagni universitari. Quell’anno ero affascinato dai film di Derek Jarman. Volevo lavorare e studiare l’effetto che la luce poteva creare sui corpi, arrivare all’essenza del corpo attoriale senza elementi decorativi. L’editor mi suggerì di reinterpretare i dieci comandamenti e pubblicarli poi su Instagram.

La prima cosa che feci fu guardarmi il Decalogo di Krzysztof Kieślowski e confrontarmi con due sacerdoti di diversa età e competenze. I dieci comandamenti hanno di base la menzogna come filo conduttore, il non mentire. Scelsi di argomentare le storie ponendo degli spunti di riflessione piuttosto di proporre delle verità, non mi sentivo intellettualmente maturo per approfondire come Kieślowski i comandamenti. Anche per via della breve durata, doveva essere la prima series italiana distribuita su Instagram.

Realizzammo #8, il meno riuscito a mio avviso, e il collettivo morì sul nascere, ma l’artista Liliana Moro, docente di riferimento nei miei tre anni allo IUAV, credette in me e mi finanziò il progetto. Un piccolo contributo che mi permise di girare gli altri nove cortometraggi da solo, con solo l’editor e il compositore rimasti al mio fianco.

#DECALOGO. Quale dei dieci è stato più complesso da girare? E verso quale hai sentito un trasporto maggiore?

Fu un lavoro lungo perché lavoravamo tutti in co-partecipazione. Coinvolsi non professionisti, attori provenienti da accademie teatrali e anche qualche attore già noto che venne a rimborso spese perché interessato al progetto. Sono stati girati tutti su un fondale di cartoncino nero di tre metri per undici. Tre cortometraggi sono stati girati in un teatro parrocchiale, tre nel mio studio a San Donà di Piave e tre nel Forte Mezzacapo di Zelarino, un ex forte militare con tanto di aquile naziste disegnate alle pareti. Qui ho girato #6, il cortometraggio più faticoso ma verso il quale sento sicuramente un trasporto maggiore. Moudou Cisse, l’attore, recitava nudo senza alcuna stufetta, con il freddo che gli entrava nelle ossa, mentre io combattevo con il crocchiare delle galline che interferiva con l’audio. Tutti i cortometraggi con la presa diretta sono stati poi post-editati da un sound designer e questo nello specifico fu anche doppiato in Wolof e italiano. È il cortometraggio, assieme a #1, che senza ombra di dubbio ritengo più vicino alla mia sensibilità odierna.

Per le prima riprese della frutta in #DECALOGO, come hai realizzato l’appassimento e la formazione della muffa?

La decomposizione della frutta è naturale. Allestii un set still life nel mio studio. Ogni giorno scattavo una fotografia con la reflex che è rimasta immobile sul treppiede per ben tre mesi. Il primo cortometraggio venne realizzato nell’inverno del 2015 e l’ultimo venne post editato nel 2018. Instagram ce li bannò per il nudo presente in alcune scene, e i festival non lo selezionavano. Ci fu un interessamento dal critico Gianmarco Torri in giuria nella sezione Satellite del Festival del Cinema di Pesaro, ma gli altri giurati non vollero prenderlo in selezione. Fu presentato per la prima volta in Concorso l’anno scorso al Ribalta Experimental Film Festival.

Only Deads. Sono molto curiosa, in questo caso, di sapere da dove nasce l’idea di associale Only Fans alla morte, trasformando un inizio da film porno-erotico in un thriller.

Sinceramente è un corto che avuto più riconoscimenti del dovuto, venendo premiato e selezionato in vari festival di genere, finendo recensito anche su Nocturno. Questo cortometraggio chiude idealmente la mia fase sperimentale e semi professionale. Durante il lockdown volevo girare qualcosa no budget e mettermi alla prova nel dirigere delle scene erotiche. Il social network Only Fans esplose proprio nell’anno della pandemia, e con esso vennero a galla anche tutti i gruppi telegram illegali che smerciavano contenuti rubati alle content creator. I video realizzati da due amiche finirono in questi gruppi, così proposi loro di realizzare qualcosa di arthouse e meno rozzo. Lo girai interamente da solo nell’appartamento di una delle due ragazze, in sole tre mattine.

L’idea iniziale doveva essere ambientata in un futuro post apocalittico con gli zombie che vennero però tagliati per motivi di budget. Le attrici non erano professioniste, per cui ho scelto una sceneggiatura a canovaccio concentrandomi più sul corpo fisico e sul concetto di sguardo. Lo sguardo al di là dello schermo nascosto nel virtuale si anima in analogico con lo sguardo del drone e prende vita con lo stalker in carne ed ossa. La cosa curiosa è che un festival in Brasile lo rese pubblico a mia insaputa su vimeo e un concittadino riuscì a vederlo e si presentò a una delle due ragazze sul posto di lavoro. La realtà non è così distante dalla fantasia.

Ombre. L’attenzione alla condizione dei senzatetto e la necessità di raccontarla dal loro punto di vista e non da quello esterno di chi li considera come feccia. Come mai questa decisione?

L’opera nasce come video installazione prodotto dalla Cassa Depositi e Prestiti per il Premio d’arte Contemporanea Teogonia Tracce di futuro. Il bando chiedeva di rappresentare la complessità del presente confrontandosi con la dimensione del mito, ispirandosi all’opera e all’intuizione del maestro Giorgio de Chirico. Sono partito con il mito delle colonne d’Ercole, quindi andare oltre quello che è conosciuto. Ombre per me è molto importante perché deriva da tanti sopralluoghi che ho fatto negli anni, nei miei viaggi a Milano per lavoro e da un’esperienza con la Comunità di Sant’Egidio, che feci nel 2008 con le persone disagiate ai margini delle strade. Ho pensato che questa potesse essere una buona rivisitazione del mito di Giorgio De Chirico, in particolare dopo quello che è successo durante il lock down nella città di Milano, dove le strade deserte erano abitate solo dai clochard, come nei dipinti le Piazze d’Italia.

In Ombre mi concentro in particolare sui clochard che abitano le gallerie e le piazze di Milano, immortalati come manichini dechirichiani, “oggetti metafisici” inconsciamente ignorati dai passanti e perennemente immersi in un sound urbano fatto di passi, clacson, sirene e altri rumori che di notte si rovescia in silenzio.

Premio Nazionale d’arte contemporanea Teogonia Tracce di Futuro per Ombre

Lische rappresenta una sorta di spaccato della vita annoiata di giovani veneti benestanti. In questo caso volevo sapere di più sulla questione fotografica, sull’uso del contrasto luci ombre e sulla scelta del neon per la parte finale.

Lische è un cortometraggio Proof of Concept di un lungometraggio attualmente in pre produzione. Io e il co-sceneggiatore abbiamo cercato di non scrivere il solito mini-film di breve durata che girano tutti prima di trarne il lungometraggio. Ci siamo concentrati su un ipotetico evento prequel, girandolo esclusivamente per dimostrare le potenzialità della storia: il concetto generale, i caratteri dei personaggi e l’atmosfera.

La fotografia gioca un ruolo fondamentale in questa statica Vigilia di Natale nel basso Piave. Il cortometraggio inizia con un campo largo, dove il buio della notte inghiotte tutto ciò che circonda la vetrina di un osteria. L’unica luce presente in scena è data dal locale. I nostri protagonisti proseguono poi la serata a bere in un bar. L’oscurità si avvicina sempre di più ai personaggi, entrando dentro lo spazio vitale, il bar. In questa seconda location, non solo la fotografia si fa più scura, ma anche le inquadrature si avvicinano maggiormente ai personaggi con mezzibusti e primi piani. Infine, la fotografia diventa infernale nell’ultimo atto. La noia, l’angoscia, il vuoto li avvolge. La camera si avvicina fino a rubare loro l’anima attraverso i primissimi piani demoniaci del finale, ispirati dal film Sedotta e abbandonata di Pietro Germi.

Premio Nazionale Luciano Vincenzoni Miglior Soggetto Cinematografico per Lische

Dopo cinque anni di sacrifici riuscirai finalmente a girare il tuo primo lungometraggio. Vuoi dirci qualcosa in più su questo futuro lavoro?

Weekend di provincia è un lungometraggio a cui sto lavorando da quasi cinque anni: una commedia drammatica dallo sguardo crudo e realistico. Nel 2019 girammo un teaser, autofinanziato, dove mostravamo l’idea generale della storia. Un grosso produttore Veneto, di cui non farò il nome, s’interessò al film e ci promise di produrci un cortometraggio da quarantamila euro. Io e Niccolò Pace, co-sceneggiatore e attore, scrivemmo Lische, ma dopo aver messo in piedi cast e troupe, sparì dalla circolazione.

Nel frattempo entrai al corso di sceneggiatura alla Scuola di Cinema Carlo Mazzacurati, dove, sotto la guida di Marco Pettenello e Jacopo Del Giudice, sviluppai il trattamento del film. Il soggetto, la settimana dopo aver terminato la scuola, vinse il Primo Premio Nazionale Luciano Vincenzoni, come Miglior Soggetto Cinematografico “Una storia veneta”.

Nel 2022 ho finanziato e girato Lische, grazie al quale ho trovato un produttore di Treviso, Sebastiano Florian, che sta attualmente seguendo la pre-produzione del lungometraggio.
I protagonisti provengono dalle migliori accademie teatrali italiane e sono accompagnati da camei noti come Alessandro Bressanello (È stata la mano di Dio), Mirko Artuso (Effetto Domino), Eva Grimaldi (Cari fottutissimi amici).

In questo progetto c’è tanta fatica, investimento, fame e desiderio di raccontare la mia terra attraverso lo sguardo annoiato di chi sembra avere tutto ma in realtà non ha niente. Un film notturno, incentrato sulla vita di una compagnia di ragazzi in una silenziosa e grigia periferia del Veneto, che cerca di evadere dai problemi esistenziali che li affligge.

Venezia, 9 dicembre 2022